giovedì 1 dicembre 2011

Urbanismo Digitale


" Lo sguardo di cui abbiamo bisogno per fare città è dunque quello di un'urbanistica che osservi senza pregiudizi i fenomeni ed i processi che plasmano il territorio. Un'urbanistica dei luoghi che scruti, sveli, interpreti il lavoro continuo dei comportamenti sociali sugli spazi abitati e la resistenza, l'inerzia di questi ultimi "
S. Boeri, L'Anticittà


E se l'urbanistica a cui Boeri si riferisce fosse un' urbanistica digitale?
Oggi, la città nel suo aspetto più fisico e diretto è caratterizzata da un numero sempre crescente di sensori, di elementi per lo scambio dati (e molti di questi sono un I-qualcosa) che rendono possibile un nuovo modo di acquisire informazioni sull’ambiente urbano e sull’uso che di esso facciamo: acquisirle, valutarle ed elaborarle permetterebbe di compiere scelte o promuovere iniziative realmente efficaci perché tarate sui feedback dei cittadini stessi.

Con questa idea di  è nato il Senseable City Laboratory, una iniziativa di ricerca del MIT di Boston, il cui direttore è l’Architetto Carlo Ratti: Il SCB ha sviluppato nel corso degli anni diverse proposte legate a questa nuova forma di urbanistica digitale partecipata, progetti che esplorano nuove potenzialità urbane, sociali, economiche ed ecologiche legate allo scambio virtuale di dati reali.

Un esempio dei tanti progetti elaborati è MatchingMarkets, una proposta per connettere direttamente il produttore di alimenti “freschi” con il consumatore, elaborando in tempo reale una mappe dell’offerta a disposizione degli utenti.

 


Il progetto Health Infoscape ad esempio, cerca di investigare i collegamenti tra malattia, spazio e geografia negli Stati Uniti .dopo uno studio condotto su oltre 7.2 milioni di dati medici anonimi.

Altro progetto interessante, presentato nel 2009 per la Città di Copenhagen, è la Copenhagen Wheel , una e-bike ibrida ( immagazzina energia proveniente dall’uso dei freni e dalle pedalate per dare un “aiutino” quando serve ) ed in grado di fornire informazioni sul traffico, sull’ inquinamento e sulle condizioni delle strade. Il tutto con un design curato ed accattivante.



Ci stiamo trasformando in homo digitans - forse sarebbe più in linea con i tempi il termine  IHomo - continuamente connessi o alla ricerca di un segnale Wi-Fi da captare per il nostro rituale scambio di dati. Web 1.0 e Web 2.0. Internet e social network. Cloud, server ftp e Dropbox vari ed eventuali. QRCode reader e vattelappesca.  Siamo tutti in rete e siamo tutti connessi. Possiamo dare e ricevere informazioni, possiamo dire, fare (credo anche baciare, lettera e testamento siano opzioni percorribili in rete) tutto con pochi click.

Eppure, l’impressione è che ancora questa tecnologia a portata di tasca venga vissuta in maniera quasi parallela rispetto alla vita di tutti i giorni; che lo scambio di dati sia ancora e soprattutto una opportunità di svago piuttosto che un sistema reale) per partecipare al “fare città”.



Ovviamente non penso che questa corrente digitale possa sostituire in tutto e per tutto l'urbanistica tradizionale ma, al contrario, sono convinto della necessità di integrare i diversi sistemi di monitoraggio per ottenere una visione ancora più completa ed aggiornata degli scenari urbani.
Una visione nella quale i cittadini siano attivamente coinvolti nel censimento dei luoghi del vivere quotidiano.

Sempre citando una frase in chiusura di Anticittà: "Un' urbanistica consapevole del suo ruolo di orientamento delle politiche pubbliche non può continuare ad agire secondo un atteggiamento deterministico, fidandosi delle sue decisioni codificate in norme. Senza interrogarsi sulla loro reale cogenza, sulla loro efficacia."


S.D.

domenica 20 novembre 2011

Shigeru Ban e Mario Botta @ MART


Mercoledì 16 Novembre ho avuto il piacere di ascoltare il faccia a faccia tenutosi al MART di Rovereto tra l'architetto giapponese Shigeru Ban e l'architetto svizzero Mario Botta, moderato dalla giornalista Susanna Legrenzi.
Dopo una breve e doverosa introduzione sui curricula dei due architetti, l'architetto Ban ha iniziato a presentare il proprio lavoro e le proprie opere in un piacevole speech solitario (pare da lui specificamente richiesto) corredato da magnifiche immagini.

Ban ha iniziato esprimendo il suo grande disappunto per le costruzioni per committenti danarosi o per l'architettura dedicata a "pochi". Ha iniziato mostrando quindi i suoi primi lavori che partivano da concetti molto semplici e chiari: la sua "Furniture house 1", una villa in Giappone che come struttura portante verticale usa solamente i mobili di legno necessari alla vita della casa stessa; tale casa possiede una tecnica costruttiva di assemblaggio che permette l'autocostruzione e un costo molto basso. Procedendo nella sua narrazione l'architetto giapponese ha esposto alcune sue ville costruite in Giappone e in USA, nelle quali ha reinterpretato i concetti e gli spazi di Mies e comparando le sue ville con la Farnsworth's House e il padiglione Barcelona. I casi proposti hanno riguardato la Sagaponac House a Long Island, la Wall Less House a Nagano e la Nine Square Grid House a Kanagawa.


giovedì 3 novembre 2011

Architettura povera

Al giorno d’oggi si associa sempre di più il termine architettura a costruzioni con connotati scenografici stupefacenti come i musei delle archistar o a edifici (ri)vestiti con materiali innovativi o facciate tecnologicamente avanzate. Non sto criticando le archistar (non oggi, non in questo post) e non metto nemmeno in dubbio la bontà costruttiva o l’estetica di queste opere architettoniche.
Sto pensando al tempo in cui stiamo vivendo, alle notizie della crisi che sta divorando l’economia attuale e sto pensando al futuro dell’architettura in un’Europa (o forse solo l’Italia) che stenta a dare opportunità ai giovani di comprarsi una casa e di trovare occupazione.
Architettura povera quindi.
Auspicare ad un ritorno dei “vecchi” principi costruttivi non significa fare architettura povera però. Recuperare le preesistenze, riutilizzare fabbriche (involucri, volumi) abbandonati o dismessi nel tessuto urbano potrebbe essere architettura povera?

La crisi porterà la popolazione a riutilizzare veramente le risorse costruite già a disposizione visto che il mercato immobiliare è letteralmente crollato? O forse negli anni passati il bisogno di immobilizzare capitali ha fatto si che vi siano villette, bifamiliari e palazzine per centinaia di nipoti e pronipoti?

sabato 22 ottobre 2011

(sovra)Scrivere il paesaggio

“…L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno di un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua,il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto il resto è muto ed intercambiabile; alberi e pietre sono ciò che sono…”
Italo Calvino, “Le città invisibili”

L’uomo flaneur di cui scrive Calvino fa esperienza dello spazio attraverso i segni che lo denotano; dai dialoghi tra Marco Polo e Kublai Khan ne “Le città invisibili” emerge con chiarezza come chiunque si impegni a percorrere, conoscere e mappare il territorio debba prima o poi affrontare il problema della varietà, della ”collezione di cose eteroclite” che lo compongono.
Somma delle peculiarità – Calvino la definiva anche “mathesis singularis” – come integrazione di tutte le istanze che definiscono uno spazio; combinazione di segni, disegni, immagini e parole che si dispiegano come narrazione dei luoghi.

Viviamo in sistemi complessi e stratificati, frutto di continue metabolizzazioni dei cambiamenti culturali, sociali tecnici ed  economici. Queste implicano un assorbimento di informazioni da parte del contesto senza soluzione di continuità. Quale metodologia può essere allora impiegata per accostarsi a situazioni così dense?

    


   
Nel panorama architettonico contemporaneo alcuni progettisti hanno sviluppato la propria poetica a partire dall’accettazione, se non dalla esaltazione, di tale complessità.
I berlinesi Martin Rein-Canoe Lorenz Dexler, fondatori di Topotek1, partono dal presupposto che il ruolo del paesaggista contemporaneo non consiste unicamente nella manipolazione, più o meno creativa, di elementi naturali. Al contrario, le loro realizzazioni sono infarcite di grafica, gioco, stupore e citazioni che vengono utilizzati come strumenti per ottenere veri e propri stravolgimenti semantici. La dislocazione di grafiche e segnaletiche immergono il costruito nel linguaggio immediato e pervasivo della comunicazione.



L’esperienza progettuale di Topotek1 riguarda interventi di integrazione rispetto a segni già esistenti. Il progetto infatti non nasce mai da una tabula rasa; al contrario deve confrontarsi con contesti saturi di materia(le), veri e propri junkspaces ridondanti ma spesso carichi di nuove ed inaspettate possibilità.
In questo senso è significativo il recente progetto Superkilen a Copenhagen, realizzato insieme ad altri teorici della “collisione semantica” come Big e Superflex, per riqualificare un quartiere ad alto tasso di multiculturalità.

           
In un articolo pubblicato su Casabella n° 737, Pietro Valle parla di “post –produzione attuata dai Topotek1 sull’ambiente esistente […] che travalica le distinzioni tra architettura, paesaggismo e land art”; numerosi sono infatti i richiami ai lavori di rilettura/ distorsione del contesto di Robert Smithson e Dan Graham.  Dopotutto il nuovo è negli occhi di chi guarda.



Gli interventi ,a tratti volutamente destabilizzanti, sono sempre funzionali ad una nuova forma di narrazione degli spazi che parte dalla somma degli input presenti  (quella mathesis singularis di cui sopra) operando una sovrapposizione dei linguaggi. Il paesaggio si dispiega attraverso flussi narrativi scanditi da eventi inaspettati, improvvisi cambi di registro e punteggiatura del racconto architettonico.

“Che cosa è infatti il paesaggio se non la citazione, all’ordine del giorno del nostro sguardo, dei brani, delle parole, anche quelle che sono diventate desuete, di un testo che ciascuno di noi è chiamato a leggere ed interpretare?”
Massimo Quaini, "i paesaggi invisibili"


S.D.

venerdì 14 ottobre 2011

Rural City


Lo scorso weekend a Bologna si è svolto l'appuntamento annuale del Saie, durante il quale sono stati presentati e premiati i progetti che hanno partecipato al concorso di idee Rural City.
Per noi Rural City è un luogo nel quale tesi ed antitesi si incontrano. Un luogo indefinito tra urbanscape e ruralscape,  dove città e campagna non si configurano più come elementi inconciliabili. Bruno Zevi lo ha definito cheapscape, Gilles Clement terzo paesaggio.

giovedì 6 ottobre 2011

Stay Hungry. Stay Foolish.



Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes.

The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo. You can quote them, disagree with them, glorify or vilify them.
About the only thing you can’t do is ignore them. Because they change things. They invent. They imagine. They heal. They explore. They create. They inspire. They push the human race forward.
Maybe they have to be crazy.
How else can you stare at an empty canvas and see a work of art? Or sit in silence and hear a song that’s never been written? Or gaze at a red planet and see a laboratory on wheels?
We make tools for these kinds of people.
While some see them as the crazy ones, we see genius. Because the people who are crazy enough to think they can change the world, are the ones who do.

Ciao Steve.

mercoledì 5 ottobre 2011

Camminate gente, camminate!

Botanici da marciapiede, Flaneur. Così li battezzò Charles Baudelaire inventando un neologismo per indicare i nuovi esploratori delle città del XIX secolo. Gentiluomini che senza un programma preciso e senza fretta vagavano per le vie della città per scoprirla. Il primo a proporre il flaneurismo come metodo di indagine architettonica fu il filosofo Walter Benjamin; andare a zonzo per la città doveva essere un metodo per approcciarsi agli aspetti psicologici della costruzione degli edifici.

Ne è nata anche una corrente architettonica. L'architetto americano Jon Jerde ha iniziato a progettare i suoi edifici con l'intento di sorprendere il fruitore; creare sorprese, aspettative o distrazioni procedendo all'interno (e all'esterno) delle sue opere.

sabato 24 settembre 2011

BENIAMINO, PARASSITA GENTILE

BENIAMINO, PARASSITA GENTILE


... Abbandonare. Lasciare senza aiuto e protezione, lasciare in balìa di sé stessi o di altri. Smettere di occuparsi di una cosa. Smettere di averne cura. Ma il paesaggio vuole [vuole!] essere abbandonato [mai più campi da golf, mai più!]. È quella la sua vocazione, il suo destino. [Col tempo forse l’abbandono assorbe il bisogno, assorbe l’oggetto con cui il bisogno si è manifestato]. ... E il monumento al bisogno riscattato dalla piè-tas sta nel paesaggio dell’abbandono in-vulnerabilmente. Mirabilmente. ... La Pennata è il manifesto popolare dell’appropriazione degli archètipi. ... Quel grattacielo somiglia a un cetriolo. Quell’auditorium somiglia a una zucca. Quello stadio somiglia a un nido. Questa è una pennata. ... In primavera, da aprile fino a maggio, il paesaggio dell’abbandono è colorato con una quantità che non si può contare di verdi diversi. Ma tanti. Mai tanti. E ogni verde ha il suo posto. E’ un verde assorbente. ...

domenica 18 settembre 2011

PAST MODERN


Il Postmodernismo è morto. A darne notizia ufficiale è il Victoria & Albert Museum di Londra che, dal 24 Settembre 2011 al 12 Gennaio 2012 inaugurerà la “prima retrospettiva globale” intitolata Postmodern – Style and Subversion1970 -1990. 

 La notizia mi colpisce soprattutto per un motivo: come scrive Edward Docx su La Repubblica del 03/09/11 “ […] che cosa è stato il postmoderno dopo tutto? Non l’ho mai capito. Come è possibile che sia finito?”

martedì 6 settembre 2011

Progetto archimpura


Ogni idea nasce in modo diverso in ognuno di noi. Può nascere da una immagine impressa sulla nostra retina che richiama un ricordo della nostra infanzia; può nascere da suoni che ricordano melodie di canzoni cantate da bambini; può nascere da sentimenti tristi o felici.

Archimpura nasce da una piacevole sensazione di benessere che si prova quando ci si accorge che due cose apparentemente slegate tra loro, si mischiano e accade la magia: si implementano, si migliorano, arrivano persino a dialogare e a convivere.
Nasce dal perverso piacere deviato che noi architetti proviamo per cercare le similitudini tra l'architettura e qualcosa d'altro; nella spasmodica pulsione di vedere nella ripetitività di un dettaglio il ritmo di una musica.
Nasce quando si riesce ad intravedere l'ordine e la precisione dell'urbanistica nella casualità del sorgere delle case in un borgo medioevale.
Nasce quando si guarda una pietanza ben composta in un piatto o quando si beve il vino dal calice giusto.

Ma perché oggi scrivo queste cose?

Perché da oggi Archimpura avrà una svolta.
Da oggi Archimpura non è più solo un’idea, un sentimento ma diventa un progetto.
Da questo mese su questo progetto saremo in tre a scrivere di commistioni di architettura urbanistica e design. Io e altri due amici architetti che come me provano lo stesso piacevole brivido nel guardare come il mondo e l'architettura si mischiano consapevolmente e inconsapevolmente.

Ho scritto che Archimpura diventa un progetto perché per ora è un blog ma non è detto che rimanga solo tale.
Nei prossimi mesi il nostro piccolo obiettivo è di scrivere tre post al mese e di far conoscere questo blog.
Faccio a me e ai miei Archimpuri colleghi un grande in bocca al lupo.

domenica 29 maggio 2011

Textile

Come già vi ho annunciato in un post precedente, una delle mie grandi passioni è l'architettura tessile.
Il fascino che trovo in questa declinazione dell'architettura deriva dall'apparente leggerezza che i volumi acquistano quando vengono delicatamante avvolti dai "tessuti". Si potrebbe cominciare un discorso lunghissimo sulla decorazione delle architetture o sull'ornamento e delitto..
L'artista Christo e la moglie Jeanne Claude ne hanno fatto arte. L'esempio più ecclatante fu la copertura del Reichstag a Berlino nel 1995.

domenica 13 marzo 2011

Martini

Sono stato troppo didattico nel post sulle membrane. Dev'essere stata la paura di dire cose superficiali o di scadere nell'ovvietà. Non accadrà più, promesso. Mi lascerò andare un po' di più, impegnadomi a scrivere ciò che veramente mi ha spinto a fare questo blog: le mie elucubrazioni (Giacobbe le chiamerebbe seghe mentali..) sull'architettura e il mondo ad essa legato e tutto ciò che la contamina e la influenza.
Ma veniamo al post. Ho preannunciato un post sull'architettura tessile ma mi manca ancora un po' di materiale e quindi dobbiamo aspettare ancora un pochino.
Questo post nasce da un pensiero nato ieri pomeriggio ricordando una frase che mi piace tantissimo di Mies van der Rohe: "Architecture is not a Martini cocktail".

domenica 30 gennaio 2011

Membrana

La membrana è la struttura che avvolge gli organi del corpo, è l'involucro della cellula, è qualcosa che "contiene". Anche l'architettura potrebbe essere superficialmente definita un involucro che contiene uno spazio al suo interno. Dico superficialmente per due motivi: il primo è che definire l'architettura è cosa complicatissima e credo nemmeno il più grande architetto saprebbe come definirla al meglio; e secondo perché definire l'architettura solamente spazio interno sarebbe sminuente; significherebbe non considerare architettura le piazze, l'urbanistica o il paesaggio. Ma non è di questo che volevo parlare in questo post.