sabato 22 ottobre 2011

(sovra)Scrivere il paesaggio

“…L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno di un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua,il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto il resto è muto ed intercambiabile; alberi e pietre sono ciò che sono…”
Italo Calvino, “Le città invisibili”

L’uomo flaneur di cui scrive Calvino fa esperienza dello spazio attraverso i segni che lo denotano; dai dialoghi tra Marco Polo e Kublai Khan ne “Le città invisibili” emerge con chiarezza come chiunque si impegni a percorrere, conoscere e mappare il territorio debba prima o poi affrontare il problema della varietà, della ”collezione di cose eteroclite” che lo compongono.
Somma delle peculiarità – Calvino la definiva anche “mathesis singularis” – come integrazione di tutte le istanze che definiscono uno spazio; combinazione di segni, disegni, immagini e parole che si dispiegano come narrazione dei luoghi.

Viviamo in sistemi complessi e stratificati, frutto di continue metabolizzazioni dei cambiamenti culturali, sociali tecnici ed  economici. Queste implicano un assorbimento di informazioni da parte del contesto senza soluzione di continuità. Quale metodologia può essere allora impiegata per accostarsi a situazioni così dense?

    


   
Nel panorama architettonico contemporaneo alcuni progettisti hanno sviluppato la propria poetica a partire dall’accettazione, se non dalla esaltazione, di tale complessità.
I berlinesi Martin Rein-Canoe Lorenz Dexler, fondatori di Topotek1, partono dal presupposto che il ruolo del paesaggista contemporaneo non consiste unicamente nella manipolazione, più o meno creativa, di elementi naturali. Al contrario, le loro realizzazioni sono infarcite di grafica, gioco, stupore e citazioni che vengono utilizzati come strumenti per ottenere veri e propri stravolgimenti semantici. La dislocazione di grafiche e segnaletiche immergono il costruito nel linguaggio immediato e pervasivo della comunicazione.



L’esperienza progettuale di Topotek1 riguarda interventi di integrazione rispetto a segni già esistenti. Il progetto infatti non nasce mai da una tabula rasa; al contrario deve confrontarsi con contesti saturi di materia(le), veri e propri junkspaces ridondanti ma spesso carichi di nuove ed inaspettate possibilità.
In questo senso è significativo il recente progetto Superkilen a Copenhagen, realizzato insieme ad altri teorici della “collisione semantica” come Big e Superflex, per riqualificare un quartiere ad alto tasso di multiculturalità.

           
In un articolo pubblicato su Casabella n° 737, Pietro Valle parla di “post –produzione attuata dai Topotek1 sull’ambiente esistente […] che travalica le distinzioni tra architettura, paesaggismo e land art”; numerosi sono infatti i richiami ai lavori di rilettura/ distorsione del contesto di Robert Smithson e Dan Graham.  Dopotutto il nuovo è negli occhi di chi guarda.



Gli interventi ,a tratti volutamente destabilizzanti, sono sempre funzionali ad una nuova forma di narrazione degli spazi che parte dalla somma degli input presenti  (quella mathesis singularis di cui sopra) operando una sovrapposizione dei linguaggi. Il paesaggio si dispiega attraverso flussi narrativi scanditi da eventi inaspettati, improvvisi cambi di registro e punteggiatura del racconto architettonico.

“Che cosa è infatti il paesaggio se non la citazione, all’ordine del giorno del nostro sguardo, dei brani, delle parole, anche quelle che sono diventate desuete, di un testo che ciascuno di noi è chiamato a leggere ed interpretare?”
Massimo Quaini, "i paesaggi invisibili"


S.D.

venerdì 14 ottobre 2011

Rural City


Lo scorso weekend a Bologna si è svolto l'appuntamento annuale del Saie, durante il quale sono stati presentati e premiati i progetti che hanno partecipato al concorso di idee Rural City.
Per noi Rural City è un luogo nel quale tesi ed antitesi si incontrano. Un luogo indefinito tra urbanscape e ruralscape,  dove città e campagna non si configurano più come elementi inconciliabili. Bruno Zevi lo ha definito cheapscape, Gilles Clement terzo paesaggio.

giovedì 6 ottobre 2011

Stay Hungry. Stay Foolish.



Here’s to the crazy ones. The misfits. The rebels. The troublemakers. The round pegs in the square holes.

The ones who see things differently. They’re not fond of rules. And they have no respect for the status quo. You can quote them, disagree with them, glorify or vilify them.
About the only thing you can’t do is ignore them. Because they change things. They invent. They imagine. They heal. They explore. They create. They inspire. They push the human race forward.
Maybe they have to be crazy.
How else can you stare at an empty canvas and see a work of art? Or sit in silence and hear a song that’s never been written? Or gaze at a red planet and see a laboratory on wheels?
We make tools for these kinds of people.
While some see them as the crazy ones, we see genius. Because the people who are crazy enough to think they can change the world, are the ones who do.

Ciao Steve.

mercoledì 5 ottobre 2011

Camminate gente, camminate!

Botanici da marciapiede, Flaneur. Così li battezzò Charles Baudelaire inventando un neologismo per indicare i nuovi esploratori delle città del XIX secolo. Gentiluomini che senza un programma preciso e senza fretta vagavano per le vie della città per scoprirla. Il primo a proporre il flaneurismo come metodo di indagine architettonica fu il filosofo Walter Benjamin; andare a zonzo per la città doveva essere un metodo per approcciarsi agli aspetti psicologici della costruzione degli edifici.

Ne è nata anche una corrente architettonica. L'architetto americano Jon Jerde ha iniziato a progettare i suoi edifici con l'intento di sorprendere il fruitore; creare sorprese, aspettative o distrazioni procedendo all'interno (e all'esterno) delle sue opere.